Femministe di un unico mondo – Elena Paparelli intervista Carla Pagano sul valore e significato del libro di Bianca Pomeranzi

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“Un libro fondamentale, un testo che mancava nella letteratura femminista italiana, che è storico e di autobiografia politica insieme”. Queste le parole con cui Carla Pagano, attivista femminista e consulente internazionale in materia di parità di genere, diversità e diritti umani, descrive il libro Femministe di un unico mondo (Fandango Libri, 2024) di Bianca Pomeranzi, curato da Carla Cotti.

Figura di primo piano nel movimento femminista italiano e nella cooperazione allo sviluppo, Bianca Pomeranzi è scomparsa due anni fa, lasciando un libro denso ma facilmente fruibile e ricco di riflessioni sulla sua attività internazionale, di lotta e di pensiero. Con Carla Pagano abbiamo ragionato su alcune sollecitazioni lanciate dall’autrice, e su movimenti transnazionali, cooperazione internazionale e politiche delle pari opportunità.

Come ha conosciuto Bianca Pomeranzi e su cosa avete lavorato insieme?

Sono un’attivista femminista e studiosa di genere e diritti delle donne, in particolare dei paesi della regione dell’Asia Sud-occidentale e dell’Africa del Nord. Dalla metà degli anni Novanta ho iniziato a occuparmi di cooperazione allo sviluppo: era l’epoca dei primi rapporti del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (United Nations Development Programme, UNDP), provenivo dai collettivi femministi e ho conosciuto Bianca nell’ambito del femminismo romano. Ho iniziato a lavorare in maniera più continuativa nella cooperazione internazionale, passando lungo tempo in Palestina a partire da febbraio del ’99. Alla metà degli anni Duemila feci domanda con la cooperazione italiana per un programma gestito da Bianca, con la quale, da allora, lavorai a diversi programmi di genere, dirigendo anche l’Unità di genere per l’Ufficio di cooperazione italiana di Gerusalemme per diversi anni.

Qual era la peculiarità di questi programmi?

Si trattava di programmi che intendevano dare seguito alla realizzazione della Piattaforma d’azione di Pechino. In Palestina si seguivano due direttrici principali: da una parte c’era il cosiddetto empowerment economico, e dunque programmi di governance multilivello che promuovevano l’empowerment delle donne in maniera decentrata, con le autorità locali. Dall’altro, abbiamo fatto tanto per combattere la violenza di genere. Un lavoro abbastanza capillare, con oltre 200 organizzazioni di donne palestinesi. Sia in Palestina che in altri paesi, come la Giordania, il Libano, l’Egitto e il Sudan, abbiamo lavorato anche per i diritti di salute sessuale e riproduttiva, per sradicare le mutilazioni genitali femminili, per i diritti umani.

Femministe di un unico mondo

Nel suo libro, Femministe di un unico mondo, Bianca Pomeranzi tocca il tema della riforma della legge sulla cooperazione per cui si era impegnata, e che trovava sollecitazioni a partire dalle critiche dei movimenti femministi. Che ruolo riveste oggi, a suo avviso, la cooperazione rispetto alle tematiche di genere e al concetto di quello che Pomeranzi definisce “empowerment autenticamente trasformativo”?

La cooperazione internazionale non è un monolite, perché cambia a seconda di chi l’agisce, dei tempi e delle culture politiche. L’Italia si riferisce ancora alla cooperazione “allo sviluppo”, termine, quest’ultimo, che si era configurato come controverso già dagli anni Novanta. La riforma della cooperazione italiana che è avvenuta con la legge 125 del 2014 ha certamente virato sulla professionalizzazione della cooperazione attraverso l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo. Un’agenzia che si vuole come soggetto semi-indipendente rispetto al governo, e che quindi può ricevere finanziamenti da enti privati, oppure anche da altri istituti di cooperazione. La legge ha riconosciuto che la cooperazione internazionale è una parte qualificante della politica estera italiana che, però, si focalizza molto sulle relazioni bilaterali e multilaterali del governo. Il patto con la società civile non è stato, a mio avviso, riformulato in base a criteri di maggiore dialogo, partecipazione, costruzione dell’agenda di sviluppo e, quindi, della programmazione della cooperazione italiana. 

Qual è il quadro, oggi?

Esiste un comitato congiunto per la cooperazione allo sviluppo, ma non è chiaro quali associazioni ne facciano parte, a che titolo, e qual è il loro contributo all’agenda di discussione e alla programmazione. La materia “cooperazione”, in definitiva, viene trattata non in termini di partenariato e di reale co-costruzione di alternative sostenibili, ma ancora in termini di “sviluppo”, prevedendo una ricaduta dall’alto dei risultati dell’azione di cooperazione bilaterale o multilaterale, invece che la realizzazione di azioni informate dal basso. Noi femministe, e anche Bianca, eravamo critiche rispetto a questa legge che non migliorava il dialogo politico, non affrontava le questioni fondanti della disuguaglianza di genere in maniera strutturale e non stabiliva dei meccanismi effettivi di partecipazione della società civile, anche dei paesi con cui l’Italia faceva cooperazione.

Nel libro di Pomeranzi si parla di un nuovo femminismo transeuropeo che “a tutt’oggi è agito solo da alcune reti e fatica a esistere a livello istituzionale, dove invece domina la politica delle pari opportunità”. Cosa ne pensa di questa distinzione?

Bianca scrive che i movimenti femministi oggi si dividono tra un femminismo globale, che punta a ottenere pari opportunità rispetto agli uomini, senza però mettere in discussione in modo profondo l’attuale sistema economico e, quindi, la base delle discriminazioni di genere; e i movimenti femministi transnazionali, e io aggiungerei intersezionali, che affrontano varie forme di oppressione, mettendo soprattutto in relazione la violenza di genere con la crisi dell’ordine mondiale. In base a questa prospettiva, Bianca ricorda come non sia casuale che la violenza di genere, e in particolare la violenza maschile sulle donne, negli ultimi anni sia diventata un indicatore delle dinamiche di potere nella sfera pubblica come in quella privata, ma anche un perno su cui questo tipo di femminismo transnazionale ruota, perché interpreta la violenza di genere come conseguenza di un sistema che si basa su un’organizzazione finanziaria ed economica che esclude e marginalizza le soggettività altre.

Secondo lei la politica delle pari opportunità sta mostrando delle crepe?

Penso che resti chiusa nei palazzi e che, nel caso italiano, ma non solo, manchi proprio di contestualizzazione teorica, in un mondo che cambia rapidamente. Il fatto che sia arroccata nei palazzi la rende altamente strumentalizzabile da parte delle forze politiche, a cui sicuramente non interessa la pratica discorsiva femminista sui diritti – anzi, in molti casi questa viene vista come un pericolo all’ordine essenzialista, eteronormato e neoliberista proposto.

Dove è visibile il nuovo femminismo a cui si riferisce Bianca Pomeranzi?

Nelle reti transnazionali che adottano una visione decoloniale del mondo – che mirano a spogliare lo sguardo, il nostro sguardo, dal retaggio coloniale, che assoggetta popoli e risorse all’ordine neoliberista –, e che considerano le culture altre come portatrici di valori e istanze politiche indipendenti e di uguale dignità e applicabilità rispetto a quelle del cosiddetto “mondo occidentale”. Io penso che tutto questo sfugga tantissimo alle politiche di pari opportunità così come le intendiamo. 

La prima Conferenza sulle donne risale al 1975, mentre nel 1995 c’è stata la Conferenza mondiale delle donne di Pechino. Pomeranzi scrive che “Conferenza e Forum sono oggi ricordati per i conflitti che emersero tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, tra associazioni internazionali di donne legate ai paesi capitalisti e quelle legate ai paesi socialisti, tra attiviste di base delle comunità remote e impoverite e femministe occidentali”. 

Quello che successe a Pechino fu che si riunirono circa 40.000 soggetti, soprattutto donne, con duemila organizzazioni di duecento paesi nel Forum della società civile a Huairou. Questa nuova forma di solidarietà e partecipazione fra donne di tutto il mondo fu sicuramente un tema. Rispetto alle altre Conferenze, fu un’esperienza fortemente mediatizzata. Cominciava a emergere la differenza fra agende politiche delle donne dei governi: donne che anche con tutto il loro portato femminista, in molti casi, si erano trovate dentro un sistema che rispondeva a una politica precisa, che era quella del loro governo di riferimento. Il rafforzamento dell’autonomia femminile e il riconoscimento del valore delle donne in tutta la loro diversità fu però fondamentale, perché a Pechino si decise che i principi guida erano l’uguaglianza, la pace, la giustizia sociale, la partecipazione, l’inclusione. La Piattaforma d’azione si fonda su questi principi, e le donne delle oltre duemila organizzazioni che animarono il Forum della società civile ebbero la capacità di incidere sulla sua adozione. 

Che considerazioni si possono trarre sull’eredità di quelle prime, decisive esperienze?

Oggi, nel mondo in cui stiamo vivendo, sembra un sogno parlare di tutto questo. A Pechino, la società civile voleva, da un lato, consolidare il ruolo politico delle donne a livello globale proprio attraverso la valorizzazione delle diversità. Dall’altro, però, voleva incidere sui governi, affinché potessero influenzare concretamente le agende politiche bilaterali e multilaterali, a livello regionale, nazionale e internazionale. La Piattaforma di Pechino riprendeva queste istanze, che ancora adesso non abbiamo compiutamente realizzato. Il coinvolgimento delle donne nella gestione degli affari pubblici in quel momento a Pechino è stato un passo fondamentale verso la responsabilizzazione di tutte le istituzioni, sia nei paesi ancora oggi cosiddetti “in via di sviluppo” che in quelli più ricchi.

Cosa significa oggi per il femminismo essere un movimento transnazionale?

Transnazionale è un termine particolare che sta a indicare la possibilità di trasporre delle esperienze da un contesto a un altro. Oggi non è più così: esistono delle reti globali – penso per esempio al femminismo decoloniale palestinese, che è una rete globale che interroga tutti i movimenti femministi rispetto all’interconnessione tra violenza di genere, oppressione ed espropriazione, esclusione e marginalizzazione, privilegio bianco e razzismo sistemico. Sono reti che si esprimono attraverso forme di resistenza comuni – che sono espressione di dinamiche che travalicano i confini nazionali, e che non sono sostenute né dai governi né dai media –, movimenti che lottano per i diritti di tutte le persone, nella loro diversità, e che vengono osteggiati e criminalizzati dai governi. Lo stiamo vedendo, perché allo stato attuale l’argomento dei diritti non è di appeal, anzi, è contrario all’ordine patriarcale neoliberista e autoritario

Dalla spinta al cambiamento degli anni Novanta a oggi: quando, dal suo punto di vista, le cose hanno cominciato a incrinarsi? 

Senza dubbio negli anni Novanta un altro mondo ci sembrava più possibile. Erano gli anni dell’altermondialismo, fino ai forum globali dei primi anni Duemila. Dopo, le cose sono cambiate: per il decennio successivo l’altermondialismo si è incrinato perché è stato perseguitato e colpito a livello globale. Attualmente stiamo vivendo una fase terribile della storia dell’umanità. In questo però è indubbia una consapevolezza decoloniale, che già esisteva, ma che è cresciuta ed è in divenire, perché è un pensiero che si deve ancora strutturare in termini pratici. Se prendiamo, per esempio, il tema della violenza di genere – che ha rappresentato un polo intorno al quale, a partire dai movimenti femministi latino-americani, si è sviluppato un movimento globale – abbiamo ancora moltissima strada da fare: in Italia abbiamo un femminicidio ogni tre giorni, atti che vengono anche compiuti da persone molto giovani, e la violenza di genere sistemica persiste. Il femminismo è una rivoluzione non violenta e globale, in un mondo che cambia rapidamente ed è molto violento.

Qual è secondo lei il punto di forza di Femministe di un unico mondo?

Penso che Pomeranzi abbia scritto un libro fondamentale, un testo che mancava nella letteratura femminista italiana, che è storico e di autobiografia politica insieme. La sollecitazione più importante è proprio quel continuum nella differenza dei movimenti femministi transnazionali che lei è stata in grado di tracciare attraverso la sua storia personale. Un continuum individuato con uno sguardo attento e mai scontato. Allo stesso tempo il suo testo è internazionale, come lo era lei, perché mette insieme tempi e soggetti proprio in base alla trasformazione del contesto globale, stimolando riflessioni sulla partecipazione essenziale delle femministe al cambiamento, nell’affermazione dei diritti, individuali e collettivi, ma anche sui temi dello sviluppo da un punto di vista di genere, sui cui Pomeranzi ha lavorato per tutta la vita.

Cosa resta ancora da approfondire, rispetto a quelle pagine, come immagini che il femminismo contemporaneo potrebbe dare un seguito al lavoro iniziato da Pomeranzi?

Dovremmo ripartire dal portato del femminismo degli anni Novanta: quelli sono stati anni di cambiamenti importanti per il femminismo internazionale, sia per il percorso fatto a Pechino, sia perché si istituzionalizzava; indagare il mainstreaming di genere, ancora oggi difficile da comprendere, vista la tendenza a essenzializzare il discorso sull’uguaglianza di genere. Analizzare cosa è successo a questi cambiamenti nella crisi dell’economia finanziarizzata globale e in quella delle strutture e del patto sociale, è ciò che Bianca, penso, non abbia avuto il tempo di fare. E che sarebbe invece importante sviluppare.

Per approfondire

Bianca Pomeranzi, Femministe di un unico mondo, a cura di Carla Cotti, Fandango Libri, 2024

Articolo originariamente comparso su InGenere il 3 Settembre 2025 e ripubblicato con l’autorizzazione di Carla Pagano.